(di Daniela Giammusso)
VENEZIA - Lo sguardo fiero. Un filo d'argento, a raccontare la maturità raggiunta. E quel colletto, sull'abito in velluto, del quale Van Dyck non era contento. È il Ritratto di Marcello Durazzo, capolavoro del maestro fiammingo, che oggi campeggia, nella sua ritrovata bellezza, al centro di Discovery and Redisconvery / Scoprire... e riscoprire, uno dei 16 percorsi di Homo Faber. Crafting a more human future, la grande mostra dedicata ai mestieri d'arte d'Europa che la Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship porta alla Fondazione Giorgio Cini a Venezia dal 14 al 30 settembre.
Dipinto tra il 1622 e il 1627, nel periodo in cui Van Dyck soggiornò a Genova, è da sempre, con il San Sebastiano del Mantegna, una delle opere più celebri della Ca' d'oro di Venezia. Oggi, dopo gli interventi terminati ad agosto e finanziati dalla Venetian Heritage con Michelangelo Foundation, Arthemisia e Marco Voena, anche il simbolo della maestria artigianale dei restauratori.
"È una delle opere caposaldo della raccolta del barone Giorgio Fracchetti, donata allo Stato italiano nel 1916", racconta all'ANSA Claudia Cremonini, direttore della Ca' d'oro che lo ha portato in anteprima ad Homo Faber. Il tempo e soprattutto "precedenti interventi", spiega la restauratrice Claudia Vittori, ne minavano salute e bellezza. "Era offuscato da uno strato di vernici, ormai alterate, e ritocchi. Soprattutto - dice - era attraversato verticalmente da una vecchia stuccatura che deturpava l'aspetto dell'intera opera". Ripulito, asportati i resti dei precedenti interventi, "è stato ora ristuccato, consolidato e integrato con i colori tutte le parti mancanti".
I risultati ufficiali delle indagini diagnostiche saranno presentati a ottobre alla Ca' d'oro, ma, anticipano la Cremonini e la Vittori, il restauro ha svelato anche qualche segreto. Come i tanti "interessanti" pentimenti. "In particolare quello sul colletto bianco dell'abito. Van Dyck, inizialmente, lo aveva pensato più sceso in avanti sulla sinistra". Sul perché poi vi abbia rimesso mano restano ipotesi. "Al tempo andavano i colletti con un cartone rigido all'interno e forse così sceso non era alla moda", azzarda la Vittori. Ma è anche vero, precisa la direttrice, "che Van Dyck dipingeva direttamente sulla tela con il pennello intervenendo man mano nel processo creativo. E di pentimenti nelle sue opere se ne trovano molti: le radiografie hanno svelato che anche gli occhi in questo ritratto inizialmente era diversi, più rialzati".
Tra i ritrovati colori scuri, la tenda rossa sullo sfondo e lo squarcio di cielo sullo sfondo, omaggio alla tradizione pittorica veneziana, "la grande bellezza del ritratto - prosegue - è la naturalezza assoluta con cui viene resa la grandiosità dello stato sociale, elevatissimo, di questo nobile gentiluomo genovese, vestito di tutto punto secondo la moda spagnoleggiante dell'epoca. E poi la colonna scanalata in quello che immaginiamo essere uno dei grandi palazzi dell'aristocrazia genovese".
Ma chi era Marcello Durazzo? Anche questo, in parte, resta mistero. "Di lui poco sappiamo - ammette la Cremonini - Figlio di Agostino Durazzo, apparteneva a una delle famiglie più nobili della classe dei Magnifici della Repubblica di Genova. Prime notizie del dipinto si trovano nel registro dei conti del padre, che il 31 dicembre del 1924 annota la spesa di 375 lire genovesi". Non per uno, ma "per due ritratti: quello di Marcello e quello di sua moglie Caterina Balbi Durazzo, con cui era stato pensato pendant".
Dopo una serie di vicissitudini, le due tele furono separate: quello di Marcello, acquistato dal Barone Franchetti alla fine dell'800 arrivò alla Ca' d'oro. Quello di Caterina, rimasto nel palazzo di famiglia, condivise la sorte degli arredi passati ai Savoia. I due consorti torneranno eccezionalmente l'uno accanto all'altra a novembre a Palazzo Reale a Torino.
In collaborazione con:
Michelangelo Foundation