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La parola della settimana è virus (di Massimo Sebastiani)

La parola della settimana è virus (di Massimo Sebastiani)

03 agosto 2020, 15:19

Redazione ANSA

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Parola della settimana: virus - RIPRODUZIONE RISERVATA

Parola della settimana: virus - RIPRODUZIONE RISERVATA
Parola della settimana: virus - RIPRODUZIONE RISERVATA

L’agente Smith, uno dei protagonisti di Matrix, il fortunato film delle sorelle Wachowski -, che al tempo dell’uscita del primo episodio della saga per la verità erano fratelli perché non avevano ancora deciso di cambiare genere – in una scena del primo episodio della saga interroga Morpheus-Lawrence Fishburne e gli illustra la sua ‘geniale intuizione’: gli esseri umani sono dei virus. Smith è un agente del sistema, cioè del Matrix, ovvero del programma che illude gli uomini di vivere nella realtà che hanno sempre conosciuto mentre quella che hanno intorno è solo una realtà virtuale.

Basta questa scheletrica sintesi per far capire quanto, all’alba del XXI secolo, il film, al di là della sua qualità cinematografica e di racconto – per alcuni avventati critici dell’epoca non un granché - , avesse colto un aspetto decisivo dell’evoluzione della tecnologia e dei turbamenti conseguenti fra gli esseri umani, o almeno in una parte di essi. La cosa interessante però, ripensandoci in questi giorni, è che Smith con la sua definizione sostanzialmente ribalta la convinzione e l’accusa dei cosiddetti ‘resistenti’ guidati da Morpheus. E’ uno schema abbastanza tipico, lo fanno tutte le dittatura e anche il Matrix lo è: chi critica, chi si oppone, è un disfattista. Smith il più radicale termine virus; in fondo lui è come un informatico di altissimo livello quindi è normale che gli venga in mente quel termine, Non solo: lui, e i fratelli Wachovski, sarebbero onorati di sapere che ad un malware di Android di recente è stato dato il suo nome: è un virus che si mimetizza da app e infetta le vere app dell’ecosistema Google.

Ma il bello delle parole è questo: che a volte ci risvegliano e ci portano a confrontarci con la realtà più nuda e concreta. Forse parliamo di virale troppo alla leggera e il caso della cosiddetta Nuova Sars partita da Wuhuan in Cina ci riporta alla vera natura dei virus. Ebbene cosa è un virus? Si tratta di particelle minuscole nell’ordine dei nanometri, tra 20 e 400. Parliamo di un milionesimo di millimetro e quindi, nell’ipotesi più gigantesca 400 milionesimi di millimetro cioè ancora nulla. Il punto più importante però è che non sono in grado di riprodursi. Per farlo devono sfruttare cellule bersaglio: le infettano e utilizzano macchinari, applicativi, sistema di trascrizione e traduzione delle altre cellule per moltiplicarsi o anche mutare per sopravvivere. Per questo si definiscono anche parassiti obbligati.

Quindi, tanto per cominciare, i virus sono oggetti di confine: stanno tra la vita e la non vita. Quello che è certo, però, è che sono frammenti di vita, in particolare acidi nucleici e soprattutto l’RNA, l’acido ribonucleico, una delle quattro componenti della vita stessa. Non solo dunque i virus sono vita e non vita ma l’origine stessa, o almeno una delle origini della vita cammina, fianco a fianco con la morte. Non siamo scienziati ma il virus forse ci spaventa tanto proprio per questo: perché ci ricorda, in modo drammatico, che la vita e la morte sono facce della stessa medaglia. E questo forse piace molto ai fratelli Wachoski (e molto meno a Greta): vita e morte, reale e virtuale. Tutto questo, andando a scavare, si scopre che è già contenuto nell’origine della parola. L’etimologia sembra semplice, è il latino virus che significa succo, umore, veleno. Ma la radice indoeuropea è vis che significa essere attivo, operare, aggredire.

Fa riferimento a qualcosa che attacca. Ecco perché le parole sono importanti, a cominciare proprio dalla parola virus, e perché è decisivo usarle nel modo e al momento giusto oppure usarle con consapevole ambiguità, dato che, come abbiamo visto, l’ambiguità è parte integrante delle parole e della loro storia. A questo tema c’è una musicista che ha dedicato una canzone. E’ Laurie Anderson, qualche decennio fa l’avremmo definita artista d’avanguardia, oggi viene definita performer. In ogni caso è stata una della prime ad usare la multimedialità e certamente a mischiare con originalità i linguaggi più diversi. Nel periodo del suo maggiore successo commerciale, gli anni ’80, poco dopo il singolo O Superman, pubblicò l’album Home of the brave che conteneva una canzone dedicata allo scrittore William Burroughs e intitolata Language is a virus. Perché, spiegò la Anderson, linguaggio e virus sono concetti che si parlano da sempre.

Ascolta "La parola della settimana: virus (di Massimo Sebastiani)" su Spreaker.

 

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