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Covid, 13 regioni del Dna aumentano il rischio

Covid, 13 regioni del Dna aumentano il rischio

Maxi studio genetico su 2 milioni di persone, verso nuove cure

09 luglio 2021, 09:26

Elisa Buson

ANSACheck

Maxi-studio genetico mondiale individua 13 regioni del Dna che aumentano il rischio di Covid (fonte: Zayna Sheikh, Broad Communications) - RIPRODUZIONE RISERVATA

Maxi-studio genetico mondiale individua 13 regioni del Dna che aumentano il rischio di Covid (fonte: Zayna Sheikh, Broad Communications) - RIPRODUZIONE RISERVATA
Maxi-studio genetico mondiale individua 13 regioni del Dna che aumentano il rischio di Covid (fonte: Zayna Sheikh, Broad Communications) - RIPRODUZIONE RISERVATA

C’è chi non è mai risultato positivo pur convivendo con un malato di Covid. Chi viene contagiato e sviluppa solo un banale raffreddore. Chi invece si trascina sintomi invalidanti per mesi o finisce addirittura in terapia intensiva in bilico tra la vita e la morte. La ragione di questa estrema variabilità nella reazione individuale al virus SarsCoV2 è scritta - almeno in parte – in 13 regioni del nostro Dna, che aumentano la suscettibilità all’infezione e il rischio di sviluppare forme gravi di malattia. Lo dimostra sulla rivista Nature un maxi studio genetico su scala mondiale, il più grande mai realizzato su Covid-19, basato sui dati di quasi 50.000 persone positive al virus e 2 milioni di soggetti sani di controllo.

I risultati, che potranno aprire la strada a nuove terapie, sono frutto della ‘Covid-19 Host Genomics Initiative’, una rete globale che comprende più di 3.000 ricercatori di 25 Paesi creata nel marzo 2020 dall’italiano Andrea Ganna, ricercatore all’Istituto di medicina molecolare della Finlandia (Fimm) e al Broad Insitute di Cambridge, insieme al collega Mark Daly. Al network ha dato un importante contributo anche l’Italia, attraverso i dati di oltre 8.000 pazienti e la partecipazione di numerosi enti, come l’Università di Siena, l’Irccs Humanitas e il Politecnico di Milano.

“Formare questa collaborazione internazionale è stato sorprendentemente facile: è iniziato tutto con un tweet”, racconta Ganna all’ANSA. “Avevamo un network esistente da cui siamo partiti e che si è espanso in maniera molto veloce. Quello che oggi pubblichiamo su Nature è solo la punta dell’iceberg di quanto abbiamo prodotto in questo anno: fin dall’inizio abbiamo deciso di rendere pubblici i nostri risultati ogni tre mesi per metterli a disposizione della comunità scientifica il più rapidamente possibile”.

In questi mesi di pandemia “si è parlato molto del genoma del virus, ma quello dell’ospite umano è altrettanto importante, perché può influire sulla probabilità di contrarre l’infezione e di sviluppare complicanze gravi”, precisa il ricercatore. “In particolare abbiamo trovato quattro regioni del Dna che aumentano il rischio di contrarre l’infezione e nove che invece aumentano la probabilità di sviluppare forme gravi di malattia. Alcune hanno a che fare con la risposta immunitaria, ed erano già note per il loro coinvolgimento in malattie autoimmuni e infiammatorie, mentre altre riguardano la biologia del polmone e hanno a che fare con malattie come la fibrosi e il tumore”.

L’estensione a livello globale dello studio ha permesso inoltre di individuare fattori di rischio genetici che sono specifici delle diverse popolazioni, come quelle di origine asiatica. “Un importante passo avanti, considerato che finora la maggior parte degli studi genetici è stata condotta su persone di origine caucasica”, sottolinea Ganna.

“Le nostre ricerche stanno ancora andando avanti per includere un numero sempre maggiore di pazienti ed etnie: dai 50.000 pazienti positivi dello studio di Nature siamo già saliti a 125.000, e le regioni del Dna sotto osservazione sono salite da 13 a 23, anche se questi ultimi dati non sono ancora stati sottoposti a peer review per la pubblicazione. Il nostro obiettivo è produrre risultati che possano aiutare a individuare target da colpire con lo sviluppo di nuovi farmaci o il riposizionamento di quelli già esistenti. Creare questo livello di collaborazione internazionale – conclude l’esperto - ci permetterà in futuro di farci trovare più pronti e preparati nell’affrontare nuove malattie”.

 

 

 

 

 

 

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