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La prof afghana, la scuola è il nostro futuro

""Italiani ci hanno aperto rete per aeroporto. Qui siamo a casa"

DI STEFANO AMBU

Ha gli occhi verdi. Sono del colore della ragazza afghana ritratta dal fotografo Steve McCurry, forse meno brillanti. Ma quella è la tonalità. Solo che quando l'intervista sta per finire quegli occhi quasi annegano in un velo di pianto. Nessuna lacrima sul viso, è una commozione quasi trattenuta con dignità. Ma quel velo dice che sono stati giorni terribili, di spaventi, preoccupazioni e di paura per il futuro. Niente nomi e niente foto, c'è sempre il timore di essere riconosciuti e di diventare magari bersaglio a distanza dei talebani.

È successo tutto all'improvviso. Lei in Afghanistan lavorava a scuola come professoressa. "Il giovedì era tutto tranquillo - racconta all'ANSA - sì, si sapeva che i talebani stavano avendo la meglio nelle province. Ma tutto procedeva regolarmente. Quel giorno era giorno di esami, arrivavano studenti a scuola da tutto il Paese. Le prove si sono svolte normalmente e siamo tornati a casa con i fogli degli elaborati".

Venerdì è festa, poi il sabato del disastro. "Sono uscita per andare a scuola e ci hanno detto che Kabul era caduta. Ci hanno raccomandato di tornare a casa e di non uscire. Lì abbiamo capito che era tutto finito. Che la scuola era finita, che il nostro futuro non era più sicuro". Poi la scelta obbligata di partire. E il calvario del pellegrinaggio all'aeroporto con figli e parenti. "Alla fine siamo arrivati in qualche modo a Roma e l'accoglienza è stata meravigliosa. Eravamo finalmente felici".

Ma all'improvviso di nuovo preoccupazione. "Ci hanno detto che ci avrebbero portato in un'isola - spiega - e tutti abbiamo pensato: ma cosa significa, dove ci portano? Ci hanno fatto salire sulla nave e la notte del viaggio nessuno ha dormito". Poi nel pomeriggio l'arrivo a Cagliari. "Da come ci hanno accolto - ricorda - abbiamo capito che eravamo stati fortunati. Che eravamo capitati in un posto dove le nostre famiglie potevano stare meglio che a Roma. E poi nei giorni successivi il calore della gente che si è avvicinata e ci ha dato una mano, con il cuore". Quindi la notizia più bella. "Ci hanno detto che i nostri figli - e qui gli occhi si riempiono di lacrime - possono andare a scuola. Ecco, questo per noi è il futuro".

Accanto a lei una giovane studentessa, 18 anni. Scappata dall'Afghanistan, le manca un anno per raggiungere il "dodicesimo grado", l'equivalente della nostra maturità. "Non ho ancora capito in che modo, ma devo continuare. Perché il mio sogno - dice - è quello di diventare un medico". Un punto di ripartenza. Dopo un'odissea. A raccontarla è quello che nel gruppo di profughi sembra un po' il leader, padre di sette figli. Sereno ora, ma provato. Ha lavorato in patria con gli italiani. E si sente riconoscente verso di loro.

"Quando siamo arrivati davanti all'aeroporto - spiega - avevamo davanti migliaia di persone. Per noi che avevamo anche i bambini era un muro invalicabile anche con i documenti a posto per partire. Sono stati gli italiani a farci trovare un varco e, arrivati alla recinzione, a tagliare la rete per consentirci di farci passare. Da quel momento è stato tutto più facile. Gli italiani in Afghanistan sapevano trattare con la gente e sapevano farsi voler bene. Quando sono stati mandati in un'altra zona del Paese e sostituiti da altri soldati di altre nazioni non è stata più la stessa cosa. Lì abbiamo capito che gli italiani erano davvero di un'altra pasta". Poi la conferma con l'arrivo a Roma.

"Splendida accoglienza, poi in Sardegna è stato meraviglioso. Noi avevamo solo i nostri vestiti da viaggio, ci hanno chiesto di dare un elenco di indumenti utili. La lista era un po' lunga, quasi avevamo vergogna di consegnarla. Ma loro - e ringrazia soprattutto Alessandro della Caritas, ragazzo cagliaritano sempre in prima fila anche in altre occasioni per l'accoglienza ai migranti - sono stati eccezionali. Soprattutto perché, al di là delle cose materiali che ci servivano, erano sempre vicini a noi. E lo stesso si è ripetuto con la gente che abbiamo incontrato nei giorni successivi. Questa è la nostra seconda casa, vogliamo essere parte di questa comunità".
   

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