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Diario della pandemia sotto lente fede

Un libro su gesti e parole Papa nelle settimane più difficili

(ANSA) - ROMA, 9 GIU - Una sera piovosa di fine marzo un uomo vestito di bianco attraversa da solo una piazza San Pietro deserta. È un'immagine mai vista, impensabile, come tutto quello che stiamo vivendo da quando il coronavirus si è diffuso per il pianeta. Ma, a parte quell'evento storico, il Papa e la Chiesa hanno accompagnato con parole e gesti le settimane più difficili vissute dall'Italia e dal mondo intero. A tracciare un diario dei giorni della pandemia, sotto la lente della fede, è Enzo Romeo nel libro "Vuoto a credere" (edizioni Ancora) in uscita oggi nelle librerie.
    Il vaticanista della Rai in un'agenda riempita giorno per giorno, dal 26 gennaio al 3 maggio, ripercorre i fatti salienti avvenuti nel nostro Paese, con particolare attenzione al ruolo svolto dalla Chiesa italiana, alle iniziative del Papa, a un modo diverso di credere e di vivere concretamente la fede.
    Abituati alle folle, ai riti collettivi, ai saluti festosi, vedere il Papa in preghiera nella piazza vuota ha colpito tutti, anche i non credenti.
    "La prima volta che Papa Francesco parla del coronavirus - ricorda Romeo - è il 26 gennaio 2020. È una bella domenica di sole e in piazza San Pietro c'è tanta gente. Il pericolo visto dall'Italia sembra molto lontano, un'eventualità remota. Dopo la preghiera dell'Angelus il pontefice, dalla finestra del palazzo apostolico, esprime solidarietà a chi è stato colpito dall'epidemia" ma "i più maliziosi pensano che siano parole pronunciate dal Papa per ingraziarsi il governo di Pechino, col quale la Santa Sede sta portando avanti una paziente trattativa al fine di comporre la vecchia frattura fra Chiesa sotterranea, fedele a Roma, e Chiesa ufficiale, controllata dal regime".
    Invece quelle sono le prime parole di una solidarietà che verrà scandita poi, giorno per giorno, nelle messe a Santa Marta, che porteranno la parola del Papa, attraverso la tv, nelle case della gente rinchiusa in un lungo lockdown, tra la paura e la necessità di evitare i contagi.
    Un "vuoto" che dunque viene colmato perché "proprio il vuoto è la condizione migliore - sottolinea l'autore - per riempire di senso nuovo e autentico le nostre esistenze. Diventate troppo piene. Di tutto: di cose, di ansie, di aspettative, di recriminazioni". "Costretti a fermarci, siamo stati indotti a liberarci del superfluo, facendo spazio, consciamente o no, al trascendente, all'invisibile essenziale, a Dio. A questa consapevolezza perveniamo prendendo atto che siamo un'unica famiglia umana, che il vicino di casa non è un estraneo, che la persona che incrocio in strada non è avulsa dal mio destino", conclude il giornalista.(ANSA).
   

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