Nell'anno 2112, "la mafia era al
governo del Paese".
Tra le pareti scrostate di un carcere, a metà tra un lager
nazista e un istituto di massima sicurezza, e attraverso gli
avvincenti dialoghi di due compagni di cella e le curiose
vicende di una guardia e del direttore del penitenziario, si
svela il nuovo ordine costituito. La mafia legifera e amministra
la giustizia e, pertanto, l'eroina è legale, il "reato di
infamità" prende il posto dei delitti di corruzione e di
omicidio, il 41-bis è rivolto ai giusti e a chi non risponde di
alcuna accusa.
Ce lo racconta "Se vince la mafia" di Davide Mattiello che,
come in un romanzo di Jules Verne, conduce il lettore in un
inquietante ma divertente viaggio tra i diritti rovesciati di un
mondo apocalittico, forse così troppo vero da non sembrare
reale.
Il libro, pubblicato da "Einaudi Ragazzi", nasce "per aiutare
i più giovani a ribellarsi". Parlare loro di mafia è, però,
impresa ardua. Un po' perché non ne avvertono l'esistenza o ne
hanno una percezione sfumata, o perché le nostre ferite gli
appaiono preistoria, o perché è più facile identificarsi con il
riccone temerario piuttosto che con il professorino dagli
occhiali spessi e squattrinato, o perché l'antimafia abusata ha
consegnato messaggi di rassegnazione, o chissà per quale altro
perché. Sta di fatto che i convegni per le platee giovanili
hanno finito talvolta, contrariamente ad ogni buona intenzione,
per trasmettere la noia o il vuoto della legalità: telefonini
nascosti tra le ginocchia e battimani solo all'alzata di
sopracciglio del maestro deluso e nervoso, hanno riempito aule
magne e sale cinematografiche affittate per l'occorrenza.
Davide Mattiello, probabilmente per la sensibilità coltivata
nei campi di battaglia a tutela delle vittime, ha trovato una
strada in cui la "lezione" sulla mafia e sulla democrazia non
sembra essere tale. La formula è l'apparente leggerezza,
l'ironia del paradosso, la semplicità del testo, la storia ben
congegnata, il linguaggio asciutto e privo di acrobazie
stilistiche, sì che l'opera si rivela di immediata gradevolezza
anche per i più restii o i più distratti.
"Se vince la mafia" sa, dunque, parlare ai giovani. Ma,
soprattutto, sa farsi ascoltare. Non si avventura, infatti,
negli astrattismi della legalità quale fondamento dello stato di
diritto, ma ne rappresenta, quale effetto necessario, la
concretezza della libertà: i giovani preferiscono sentirsi
liberi e non legalizzati. Non ricorre a dotte considerazioni sul
bene comune, a inviolabili dogmi giuridici, né si affatica a
convincere sulla convenienza del rispetto delle leggi. Si
limita, invece, più semplicemente, a presentare al lettore, in
maniera plastica, il dirupo che ha di fronte. Le conseguenze
sbucano da sole, come nel primo piano di un pugno allo stomaco,
senza accompagnarle da giudizi morali pronti a essere inoculati
perché, scrive Mattiello, le nozioni di buono e cattivo, in un
ordinamento, non sono mai universali. Basta, allora, la cruda
immagine di quel dirupo per sancire, implicitamente e senza
paroloni ad effetto, la sacralità della Costituzione che
"consente a tutti di correre allo stesso modo", e per
evidenziare che il potere mafioso è contrario al principio di
uguaglianza e al diritto alle proprie aspettative. Ed è sempre
quel dirupo che avvisa, con un loquace silenzio, che, quando il
"codice d'onore" sostituisce il codice penale mentre la
tenerezza è bandita dal vivere sociale perché "è fatta di
immedesimazione nei panni dell'altro", ruzzolare è inevitabile,
tanto per gli uomini con le pance piene che per quelli con le
tasche vuote.
"Se vince la mafia" è, quindi, innanzitutto, un libro per i
ragazzi che custodisce una bussola, forse una lampada di
Aladino, dove i giovani possono trovare da soli, senza la
pressante regia educativa, le loro risposte. Ma, con lo stesso
piacevole inganno del "Piccolo principe", è anche un libro per
gli adulti, per coloro che credevano di sapere e di essere,
ormai, oltre il dilemma delle scelte. Le vicende della
narrazione, seppure esasperate in funzione del paradosso,
richiamano quei tanti accadimenti che noi, i grandi, siamo in
grado di riconoscere e di collocare, spesso, in epoca successiva
allo spartiacque del 1992. Eppure, questo è l'anno
dell'alfabetizzazione di massa sulla mafia, il tempo dopo il
quale nessuno poteva più firmare celandosi dietro a una ics. "Se
vince la mafia", allora, racconta anche, con lo stesso garbo
usato per i giovani, che l'assenza di morti e il tacere delle
bombe sono stati gli alibi dei troppi miopi che hanno voluto
ignorare sentendosi innocenti, avvinti dal commodus discessus di
preferire "la tranquillità alla libertà". Così, Mattiello
avverte, con un elegante fil di voce, che l'anno 2112,
nell'evoluzione subdola degli accadimenti silenziosi e
tollerati, può non essere tanto lontano.
Non è un caso che, nel libro, la nascita del governo mafioso
coincide con la "piccola forzatura formale" del giudice buono,
motivata dall'ardore di liberare il Paese da legami indicibili,
e che, di per sé, potrebbe trovare il plauso dei coraggiosi.
Fuori dalle regole, però, il bene e il male si confondono,
oltrepassano il confine che, se ci si volta indietro a cercarlo,
non esiste più. Nell'asciutta locuzione del magistrato che
ammette la violazione, seppur piccola, si intravede, quindi, la
genesi della deriva dell'antimafia, quella che, dopo il '92, fu
predata dai faccendieri e piegata agli intrallazzi, quella che,
più di qualunque epocale riforma, muovendosi nei sotterranei e
bardata di legalità, può far sì che nel 2112 "la mafia era al
governo del Paese".
Anche la "donna morta senza giustizia", che Davide Mattiello
ha accompagnato con dedizione nella ricerca della verità, vuole
ricordarci, in punta di piedi e senza indici puntati come mitra,
che i tribunali, a cui è comodo delegare (e relegare) la
questione mafiosa, non sempre, da soli, possono entrare in scena
come il deus ex machina, non essendo entità autosufficienti ma
elementi di un sistema complesso di responsabilità collettiva.
"Se vince la mafia" è, dunque, un libro di fantascienza che
non è di fantasia, ironico ma per alleggerire il dramma,
destinato ai ragazzi ma rivolto agli adulti. Ed è, soprattutto,
oltre ogni definizione canonica, una lirica sulla democrazia che
fa venire la voglia di sbracciarsi daccapo per recintare quel
dirupo.
(La recensione è di Marzia Sabella, procuratrice aggiunta di
Palermo)
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