Antonio Scala, laureato in Fisica all’Università di Napoli Federico II e conseguito un dottorato all’Università di Boston, è stato membro dell’OSN (Osservatorio per la Sicurezza Nazionale del Ministero della Difesa) è ricercatore scientifico all’Istituto Sistemi Complessi del Consiglio Nazionale della Ricerca Nazionale (CNR), in cui si occupa di Reti Complesse in ogni ambito, dall’economia alla medicina, ed è Presidente della Big Data in Health Society.
Pandemia e rete: quanto la teoria delle reti può aiutarci nell’affrontare una situazione di crisi
Un’intervista a un esperto di reti, infrastrutture critiche e sistemi complessi, Dott. Antonio Scala, ricercatore CNR e presidente della Big Data in Health Society.
La teoria delle reti sostiene che siamo tutti connessi e vicini, ovvero in un solo mondo. Ci può spiegare in breve come si propaga da un punto a un altro un virus che ha le stesse caratteristiche di una rete?
Vi spiego cosa succede ad un virus quando si trova all’interno di una rete.
Innanzitutto, per capire la differenza tra virus e rete, basta guardare cosa succede in un mondo meno connesso. L’esempio classico è l’epidemia di peste nera in Europa: dall’arrivo in Medio Oriente fino al suo spegnersi nei Mari del Nord passarono circa due anni e mezzo. All’epoca i collegamenti erano difficili e la velocità dell’epidemia procedeva con la velocità con cui le persone e le merci si muovevano. In pratica, la rete dei contatti sociali era meno densa, per cui il contagio per passare da una città all’altra doveva aspettare che qualcuno si spostasse con i lenti mezzi dell’epoca dall’una all’altra.
Oggi la velocità degli spostamenti è tale che una persona infetta, prima di rendersi conto di essere tale, può già essersi spostata da un punto all’altro del globo. Non a caso i modelli epidemiologici più avanzati indicano i trasporti aerei come i maggiori “acceleratori” di epidemie. In generale, più la rete sociale è connessa, più l’epidemia ha facilità a propagarsi: non a caso la prima norma in questi casi è “diluire” la rete, ovvero evitare quei luoghi (trasporti pubblici, scuole, stadi, assembramenti in generale) dove tante persone sono a contatto.
Effetto domino ed epidemie: come sono correlati?
Quando per la prima volta furono introdotti i nuovi modelli epidemiologici che tenevano conto dei flussi globali di persone nel mondo, si capì subito che, per evitare che tutti i paesi si contagiassero per effetto domino, l’unico intervento era interrompere tali flussi, in particolare quelli aerei. Per essere efficace, tale soluzione purtroppo richiede nella maggior parte dei casi un tempo inferiore a quello di cui si dispone: in pratica, da quando nasce un’epidemia a quando viene rilevata clinicamente, i portatori hanno già avuto modo di fare il giro del globo e la chiusura dei traffici non risolve il problema. Allo stesso tempo, poter risalire a chi è stato potenzialmente esposto al contagio ed isolarlo aiuterebbe a mitigare l’epidemia.
Quali pensa che saranno gli scenari futuri?
La prima cosa da fare è avere un sistema di analisi e modelli che analizzi dati di qualità raccolti in presa continua. Tale sistema deve funzionare non solo durante le emergenze, ma anche prima che accadano, in modo da partire da una situazione con il minor numero di incognite possibile. Ovviamente un sistema del genere non può che partire da un approccio interdisciplinare, in grado di elaborare dati tenendo conto del loro significato clinico-medico, di analizzare scenari in base alle possibili politiche di intervento e di comunicare in modo efficace e differenziato i risultati ottenuti ai decisori e ai cittadini. Non bisogna assolutamente sottovalutare l’importanza di una comunicazione che affianchi e supporti i piani di intervento evitando da un lato il panico, dall’altro la sottovalutazione del problema. È inoltre chiaro che un tale sistema non può che essere coordinato a livello mondiale: in una epidemia, prima si parte e meno restrittive possono essere le misure. Inoltre, vi deve essere una procedura condivisa su quali siano i dati da rilevare e le procedure affinché siano confrontabili, nonché un comune accordo sui modelli interpretativi e sui parametri di interesse. Dando per scontato che se un paese sta già soffrendo una escalation del fenomeno, allora sicuramente qualche infetto sarà già presente anche nel mio territorio, si può evitare di aspettare che il fenomeno raggiunga anche da me livelli elevati ed agire di anticipo, cercando di isolare i possibili contagiati. Nei paesi occidentali, lo scenario futuro che spero si verifichi è che in condizioni di allarme le persone si autodenuncino immediatamente, sia per il bene del paese, sia perché così potranno avere cure tempestive; in alternativa, si rischia di dover ricorrere a sistemi più intrusivi della nostra privacy come quelli che sono stati possibili – ed efficaci – in paesi con una tradizione di maggior rispetto della collettività rispetto all’individuo.
Antonio Scala
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