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Viaggio nel termovalorizzatore di Torino

Emissioni quotidiane controllabili su internet

Redazione ANSA ROMA

Sono la bestia nera di qualsiasi comitato di cittadini. I termovalorizzatori, ossia gli impianti che bruciano la spazzatura per produrre energia elettrica. Non appena si parla di costruirne uno, sorgono comitati di cittadini contro. E se l'impianto c'è già, inevitabilmente c'è pure il gruppo di abitanti della zona che lo combatte. La paura è sempre la stessa: i fumi del termovalorizzatore sono inquinanti, fanno ammalare chi ci vive intorno.

Ma cosa c'è di vero? A Torino, dove esiste uno dei termovalorizzatori più grandi e moderni d'Italia, è stato formato un Comitato locale di controllo formato da Asl locali, Arpa e Istituto superiore di sanità. Il Comitato ha condotto un'indagine epidemiologica dal 2013 ad oggi su 200 torinesi che abitano intorno all'impianto e altri 200 che vivono in altre zone. Il risultato è che non ci sono differenze fra un gruppo e l'altro nella presenza di inquinanti nelle urine e nel sangue.

L'aria di Torino è inquinata, ma a causa delle auto e del riscaldamento, non per il termovalorizzatore.

L'impianto torinese del quartiere Gerbido è entrato in funzione nel 2013 alla periferia sudovest della città, vicino a Mirafiori. Brucia 500.000 tonnellate di spazzatura all'anno, 1.600 al giorno. Produce 65 megawatt di elettricità, sufficiente ai bisogni di 175.000 famiglie. Dall'inverno 2019-2020, produrrà anche acqua calda per riscaldare le case con il teleriscaldamento. L'impianto è gestito dall'Iren, multiutility quotata in Borsa: al 50% è dai Comuni di Torino, Genova, Piacenza, Parma e Reggio Emilia, per il resto di privati.

I tir della spazzatura indifferenziata (a Torino la differenziata è solo al 50%), quando arrivano al termovalorizzatore vengono controllati per accertare la provenienza del rifiuto (per evitare smaltimenti illegali) e l'eventuale presenza di materiali radioattivi. Quindi la spazzatura viene scaricata in una gigantesca fossa di cemento armato, lunga 150 metri, larga 10 e alta 30, pressurizzata per evitare la diffusione di odori. Stando davanti alla fossa, non si sente alcuna puzza.

Due benne a polipo buttano 7-8 tonnellate di rifiuti alla volta nella caldaia. La spazzatura brucia da sola a oltre 1.000 gradi. Deve rimanere sopra gli 850 gradi per non produrre diossina. Se scende sotto quella soglia, entrano in azione bruciatori a gas. Il fondo della caldaia è formato da griglie inclinate che si muovono, per far cadere in fondo le scorie. I fumi roventi scaldano l'acqua dentro dei radiatori. Il vapore acqueo fa girare una turbina, che produce elettricità.

I fumi, carichi di sostanze pericolose, subiscono 4 processi di pulitura: un elettrofiltro toglie il 99% delle polveri, un reattore a secco assorbe metalli e gas acidi, i filtri a maniche trattengono le polveri sottili, un reattore catalitico abbatte gli ossidi di azoto.

I fumi depurati escono da un camino alto 100 metri.

All'interno del camino ci sono rilevatori di 10 sostanze inquinanti, collegati direttamente con l'agenzia regionale ambientale, l'Arpa. Questa può sapere in tempo reale cosa esce dall'impianto, senza dover chiedere all'impianto.

Sul sito del termovalorizzatore (trm.to.it) i cittadini possono controllare i valori delle emissioni dell'impianto del giorno prima, e verificare se rimangono sotto i limiti di legge.

Fin dall'inizio, la società di gestione Trm (80% Iren, 20% Comuni della zona) ha tenuto un atteggiamento di dialogo con la popolazione locale. L'impianto è visitabile al pubblico e accoglie numerose scuole. (ANSA).

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