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Khaled Khalifa, Aleppo saprà rialzarsi ancora

Nel 2011 eravamo sognatori, lasciateci andare per nostra strada

19 marzo, 21:09

(di Luciana Borsatti)

ROMA - "Avremmo tanto voluto che il governo ci ascoltasse, che si aprisse una nuova strada per i diritti umani e una vita migliore. Ma eravamo un gruppo di illusi, di sognatori: non avevamo capito che non è permesso agli arabi godere della democrazia". Così lo scrittore siriano Khaled Khalifa ha parlato delle prime speranze di cambiamento nutrite dalle manifestazioni di piazza del marzo 2011, poi sfociate nella repressione e negli ultimi, tragici sette anni di guerra.

"In questo momento abbiamo tanti nemici e nessun amico - ha proseguito - lasciateci andare per la nostra strada". Khalifa era ospite di un incontro con il pubblico a "Libri Come", la Festa del libro terminata ieri all'Auditorium di Roma. Qui ha presentato il suo ultimo romanzo "Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città" (Bompiani) ambientato ad Aleppo quando a guidare la Siria (tra il 1971 e il 2000) era Hafez al Assad, padre del presidente in carica Bashar al Assad. Un libro in cui racconta come la paura della dittatura e l'istinto al silenzio "crescevano sotto la pelle" di anno in anno, trasformando le persone e chiudendo man mano quegli spazi di libertà che almeno i giovani come lui riuscivano a ritagliarsi.

Ma è il dramma dell'oggi che ha dominato l'incontro: un dramma in cui - come ha ricordato il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury - in una popolazione di 21 milioni di siriani 11 milioni sono ora sfollati o profughi; e dove all'arabo dolce e musicale parlato a Roma da Khalifa si sono sovrapposte le tante altre lingue dei miliziani in guerra: l'arabo libanese o iracheno, i dialetti afgani, il russo e il persiano diffusi tra i lealisti, l'arabo tunisino e libico, il ceceno e la lingua delle Maldive parlati sul fronte dei ribelli.

Eppure Khalifa, dopo tante tragedie e distruzioni che continuano in una Siria sempre più dilaniata, dichiara ancora il suo ottimismo. "Da dove mi viene la speranza? Dal fatto che non è possibile vivere senza - ha risposto - ma anche dal fatto che Aleppo è la città da cui la speranza si diffonde sempre. Aleppo è una città caduta tante volte nella storia, ma ogni volta si è rialzata. E' una città maledetta ma non le è possibile morire",.

Lo scrittore - già autore di "Elogio dell'Odio" ambientato nella stessa epoca - è nato ad Aleppo e vive tuttora a Damasco - anche se, riconosce, non avrebbe difficoltà ad andare all'estero per la sua notorietà. "Perché non lascio la Siria? Che valore ha essere al sicuro se il tuo popolo non lo è? - chiede lui stesso - e perché altri restano, pur avendo perso tutto? I miei amici della Ghouta per esempio, anche se vi sono bombardamenti da cinque anni - dice della regione ora più martoriata dalle forze di Assad -; e la mia famiglia vive ad Afrin, e ci resta" - aggiunge dell'enclave curda appena conquistata dalle forze filo-turche - e allora perché io dovrei andarmene?".

E infine, un'altra sua domanda, polemica nei confronti dell'Occidente. "Perché noi arabi dobbiamo sempre spiegare chi siamo? Perché tocca a noi smentire i pregiudizi costruiti su di noi? Per secoli il porto di Aleppo è stato Venezia, dove si parlava anche l'arabo. Ad Aleppo il consolato veneziano aveva 20 dipendenti" e anche in tempi recenti, aggiunge, vi vivevano migliaia di italiani e tanti altri europei. "Avevamo una storia condivisa che è stata stroncata". E ora sulla copertina di alcune traduzioni dei suoi libri vede donne velate e immagini - conclude - che nulla hanno a che fare con la Siria che conosce.

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